lunedì 22 novembre 2010

Nichi, tra sogno americano e profumo della libertà



lunedì 22 novembre 2010 12:18 - di Stefano Vaccara - Categorie: Articoli

Intervista a New York con il Presidente della Regione Puglia.

Nichi Vendola, 52 anni, Presidente della Regione Puglia è il politico italiano che da alcuni anni ha le azioni “elettorali” in rialzo costante. La sua avventura politica comincia sempre più ad assomigliare a quella di Barack Obama, non solo per l’indiscutibile talento oratorio capace di conquistare su internet milioni di navigatori, ma soprattutto perché nell’Italia del 2010, un candidato omosessuale, già comunista ora “post ideologico”, avrebbe le stesse possibilità di vincere le elezioni di quelle che un senatore dell’Illinois dalla pelle nera aveva, tre anni fa, di conquistare la Casa Bianca…
Il Presidente Vendola questa settimana è stato in California, a Washington e a New York. Ad America Oggi ha concesso questa intervista in cui ha spiegato le ragioni del suo passaggio negli Stati Uniti svelando molte delle sue ambizioni.

«Il focus del mio viaggio in America è stato la lotta contro i cambiamenti climatici e l’inquinamento del pianeta. La mia regione, una regione del Sud di quattro milioni di abitanti, è diventata in pochi anni il primo produttore in Italia di energie rinnovabili e ha fatto una scelta strategica in direzione della eco sostenibilità. Ho raccolto l’appello del governatore della California Schwarzenegger che difronte al fallimento dei vertici dei grandi del mondo, come accaduto a Copenaghen e come sta per accadere a Cancun, ha messo in campo R20, una esperienza nuova, e io sono tra i fondatori di questa rete. All’Università della California di Davies ho continuato a discutere su come continuare a scambiarci nuove pratiche perché il mondo possa cominciare a liberarsi dall’incubo del soffocamento.

A New York ho incontrato i rappresentanti della Fondazione Rockfeller e della Fondazione Ford con i quali ho approfondito la discussione su temi come la deforestazione, la desertificazione, la difesa dell’acqua come bene comune. Ancora a New York ho incontrato la comunità degli italiani nella sede della Casa Italiana Zerilli Marimò della NYU, un successo straordinario per la partecipazione immensa e per la libertà del dialogo che si è determinato. Poi a Brooklyn sono stato calorosamente accolto dai rappresentanti della comunità pugliese.

Sempre a New York ho incontrato gli attori fondamentali del sistema Italia, presso la sede del Consolato, con cui abbiamo discusso di progetti specifici, come quello legato agli itinerari ebraici in Puglia che possiamo rivolgere alla comunità ebraica di New York. Sono stato anche ospite di Oscar Farinetti, di Eataly, che è una esperienza di impresa economica e culturale che ha il pregio di spiegare concretamente quello che io immagino come nuovo modello di sviluppo.

A Washington ho fatto una lezione sui beni comuni e la sostenibilità ambientale alla Georgetown University. Al Dipartimento di Stato ho incontrato l’adviser per le politiche di innovazione, Alex Ross, uno dei principali collaboratori di Hillary Clinton, e con lui ho avuto modo di discutere di New Media scambiando informazioni molto importanti. Poi ho incontrato anche il presidente della Commissione Esteri del Senato John Kerry, una delle personalità più autorevoli del mondo politico americano, che mi ha accolto con estrema cordialità. Aveva notizie sulla mia persona e sulla mia politica. Con Kerry abbiamo discusso sia di green economy e di lotta all’inquinamento, e anche discusso di Afghanistan e lui era molto curioso di conoscere le miei opinioni. In definitiva ho incontrato imprenditori, politici, finanzieri, uomini e donne di cultura, in un viaggio che ha spiegato le ambizioni della Puglia e che ha reso ancora più conosciuta questa piccola ma vivace regione del Mediterraneo, consolidando un network di relazioni internazionali che sono importanti per il nostro territorio».



Ha accennato che con il senatore Kerry ha parlato di Afghanistan e su questo punto ci torneremo. Però se ha discusso di un tema così scottante di politica estera con il presidente della Commissione Esteri del Senato Usa, significa che a Washington lei non era percepito solo come presidente di una pur importante regione italiana…

«Forse Kerry aveva letto il Los Angeles Times di giovedì, che racconta al pubblico americano che in Italia c’è un declino vorticoso del premier Berlusconi, con una caduta di consensi alla destra e una crescita, molto forte, di consenso nei confronti della mia persona».

Ormai scrivono che lei è l’outsider, come lo è stato Obama, che potrebbe raggiungere le vette del potere in Italia…

«Avendo molto chiaro il senso delle proporzioni, una piccola regione del Mediterraneo e la nazione più potente del mondo e vivendo con grande ammirazione il rapporto con un grande libero del mondo e della storia come Obama, io penso di vivere concretamente da molto tempo la lezione che Obama ha trasformato in discorso politico. E cioè che la politica ha bisogno di presentarsi come una grande narrazione e saper coniugare la dimensione dell’utopia con la dimensione della concretezza. E di poter indicare per un mondo globalizzato orizzonti nuovi di convivenza che siano il contrario di quel crimine storico che andò sotto il nome di guerra permanente e che fu perpretato nei circoli più reazionari che giravano attorno alla Casa Bianca nei tempi sventurati di Bush. La politica come rapporto tra il principio speranza e le attese delle persone in carne e ossa, la politica come un processo di cambiamento che bussa alla casa di tutti e che accompagna le domande di migliore qualità della vita».

Da quando Obama è giunto alla presidenza, questo nuovo approccio alla politica lei riesce a vederlo anche concretamente?

«Devo dire che Obama ha incrociato tre grandi difficoltà: quella della crisi economica, frutto della droga della destra che ha governato un intero ciclo della storia del mondo. Che ha immaginato che l’America potesse essere il paese più indebitato del mondo, e ora si ritrova con un fenomeno di impoverimento che riguarda fasce larghe della popolazione. La seconda grande difficoltà è rappresentata dal bombardamento politico-mediatico delle grandi lobbies, il gruppo Fox innanzitutto, che ha messo in campo una guerra contro Obama, che per 24 ore al giorno ha raccontato falsità agli americani. Il gruppo Fox è l’emblema di un potere delle lobby economiche, a partire dai petrolieri, che hanno per troppo tempo dominato i palazzi del potere a Washington. Vorrei ricordare che per un anno e mezzo durante la discussione sulla riforma sanitaria in America, secondo dati ufficiali, per ogni congressman c’erano otto lobbisti e che ogni giorno venivano spesi un milione e mezzo di dollari, ogni giorno per un anno e mezzo. Per impedire che l’America profonda capisse che il diritto alla salute è un diritto fondamentale dell’essere umano, non è l’ingresso in un mondo bolscevico ma è un fondamentale diritto alla vita. La terza difficoltà è legata alla natura del partito democratico americano, che è fatto di molte componenti. Le più moderate sono particolarmente sensibili alle pressioni delle lobby economiche e quindi Obama ha avuto anche una grande difficoltà interna a rendere efficace il processo di cambiamento. L’opinione pubblica ha visto solo un dibattito molto violento e non ha avuto ancora la percezione del cambiamento reale».

Se potesse importare qualcosa dalla società americana in Italia, cosa prenderebbe e cosa invece non vorrebbe mai?

«Le cose che mi piacciono le vedo nella vita delle grandi città. Come l’attenzione al merito e al talento delle persone, la possibilità di guadagnare una chance di vita mettendosi in gioco, diciamo una discreta mobilità sociale. Quello che non importerei è quello che è fuori dalle grandi città americane. Cioè quel clima per me claustofobico, dell’America del rancore, un’America tutta armata, che si diverte a vedere le penose performance della Palin e che ama i video-predicatori che sono il massimo della falsità e della manipolazione, che si presentano con la bibbia nella mano destra e un revolver nella mano sinistra, un’America reazionaria e razzista che trovo insopportabile. Fortunamente con Obama si è ritrovata un’altra America, quella che io ho sempre amato, l’America di New York, l’America del Greenwich Village, di Woody Allen, del Jazz, dei grandi scrittori, della Hollywood progressista, l’America dove c’è una grande profumo di libertà».

Lei si è candidato alle primarie del centrosinistra questa estate perché già allora affermava che Berlusconi avesse concluso il suo ciclo e che presto si sarebbe tornati a votare. In questa sua ascesa alla politica nazionale teme di più il confronto con Berlusconi e con Fini, o con i vertici del Partito democratico di Bersani?

«Io mi batto perché si facciano le primarie. So che non tutto il centrosinistra è convinto della bontà di questo strumento. Ma io penso che è un modo per rigenerare la politica del centrosinistra, per uscire fuori dal palazzo, dal chiuso, dalle segrete stanze in cui poche persone decidono sulla pelle di molti, per decidere con il popolo, decidere all’aria aperta, fare della politica qualcosa di trasparente. Spero quindi che nel centrosinistra prevalga l’opzione delle primarie e di avere candidati competitivi, molto forti per fare una bella gara….».

Ma lei vuole solo partecipare o vuole vincere?

«Per me vincere non significa che vinca io, ma che vinca la buona politica, che vinca la speranza nella politica a sinistra. Nel centrodestra mi piacerebbe avere un avversario come Fini. Non sarà possibile perché credo che il centrodestra sia condannato ancora ad essere prigioniero delle dinamiche shakesperiane di quest’uomo finito, rabbioso, troppo potente che è Silvio Berlusconi».

Il centrosinistra ha vinto finora soltanto con Prodi. Cioè in Italia le elezioni si possono vincere soltanto se non si ha contro la Chiesa?

«Penso che invece di cercare l’accordo con il potere della Chiesa, bisogna cercare il confronto con la profezia della Chiesa. La Chiesa non è un mondo monolitico, la Chiesa Cattolica è un grande arcipelago. In una regione tradizionalmente di destra come la Puglia , io ho vinto anche perché la maggior parte dei credenti e anche una parte molto grande del clero cattolico ha scelto me».

Lei crede in Dio, infatti. Forse anche gli ideali del suo partito, Sinistra Ecologia e Libertà, sono influenzati dagli insegnamenti di Gesù?

«Io penso che chiunque si batta perché ha fame e sete di giustizia, in qualche maniera ha una relazione consapevole o inconsapevole, con la parola di Gesù. Noi non dobbiamo però lottare per fare un partito credente, la fede è un fatto che riguarda poi ogni singola persona. Noi dobbiamo lottare per fare un partito credibile».

Dall’Italia oggi arriva la notizia delle motivazioni della sentenza di condanna al senatore Marcello Dell’Utri. Per lei che è stato per anni componente della commissione antimafia in Parlamento, avevamo pronta un’altra domanda: perché sono stati uccisi Falcone e Borsellino? Sapremo mai la verità sulle stragi?

«Penso che noi stiamo danzando attorno alla verità, perché la verità è ancora non sopportabile per l’Italia perché potrebbe essere troppo sconvolgente. La mafia è stata per una parte antistato, ma è stata anche un pezzo dello Stato. La mafia è stata uno strumento per costruire destabilizzazione politico istituzionale e anche per ricostruire nuovi equilibri politico istituzionali. Sulla sentenza Dell’Utri, rischiamo di scoprire l’acqua calda. Quasi tutte le grandi imprese del Nord scendendo al Sud e in Sicilia hanno usato un ascensore facile, e cioè la mafia. I rapporti tra il gruppo Fininvest e Cosa Nostra siciliana sono scritti in moltissimi atti giudiziari. Vittorio Mangano, che oggi è morto, ma che con sentenze definitive e stato considerato un capomafia, prestava il suo lavoro presso la villa di Berlusconi ad Arcore, questo fatto illumina la scena diciamo così culturale, politica, civile…»

Nelle motivazioni della sentenza di secondo grado, Dell’Utri è indicato come “il mediatore” tra i boss di Cosa Nostra e l’allora emergente imprenditore Silvio Berlusconi. C’è chi chiede le dimissioni del Presidente del Consiglio…

«L’onorevole Berlusconi mi ricorda una frase nel libro ‘Il danno’ di Josephine Hart: ci si vergogna solo la prima volta. Ormai con Berlusconi sono così antiche le storie di complicità con i principali poteri criminali del nostro paese, che hai difronte un potere opaco che non ha più neanche il sentimento del pudore e che non si vergogna più, forse non si è mai vergognato. Ma c’è l’Italia che si vergogna di avere questa classe dirigente».

Chi combatte meglio oggi le mafie, lo scrittore Roberto Saviano o il ministro Roberto Maroni?

«Il ministro Maroni è un grande pubblicitario, fa gli spot. La mafia viene combattuta da quelle procure, da quei giudici che Berlusconi ogni giorno cerca di delegittimare. I mafiosi vengono catturati dalle forze di polizia su mandati di cattura della magistratura. Sembra invece che vada personalmente il ministro Maroni ad arrestare i capi mafia. Appunto è un bravo confezionatore di spot pubblicitari. Dovrebbe piuttosto spiegarci come è potuto stare nello stesso governo con personalità di alto profilo camorrista».

Torniamo alla politica estera. Se lei domani fosse il capo del governo italiano: l’euro è da difendere sempre e per sempre? Cosa farebbe in Afghanistan il giorno dopo entrato a Palazzo Chigi? Quale dovrebbe essere il ruolo dell’Italia nella NATO del XXI secolo? E cosa pensa delle missioni militari italiane per l’ONU?

«Prima questione: l’euro è stato un ombrello protettivo per l’Italia. Se noi fossimo andati incontro alla crisi economica finanziaria in una condizione segnata da una moneta nazionale saremmo stati travolti. Il problema non è l’euro, l’Europa non può essere soltanto una moneta. Se attorno all’euro non si costruisce una grande democrazia continentale, anche la moneta rischia poi di essere debole.

Seconda questione: le ripeto quello che ho detto al senatore Kerry. Io non voglio fuggire dall’Afghanistan, io voglio fuggire dalla guerra. Io non voglio che la comunità internazionale si disimpegni in Afghanistan, voglio che la comunità internazionale si impegni in Afghanistan per esempio convocando subito una conferenza internazionale di pace. Avendo il coraggio di immaginare un percorso concreto di trasformazione di quello che è un teatro di guerra e che può diventare un teatro di pace.

Terza questione: il problema non è stare nella NATO o uscirne. Il problema è costruire una politica della difesa, della libertà, della democrazia e dei diritti umani, che superi tutti i vizi sia del bipolarismo della Guerra Fredda e sia del monopolarismo che c’è stato negli anni sciagurati di Bush. E penso che il problema debba riguardare la capacità di tornare con forza dentro le alleanze politico militare a praticare il verbo del disarmo universale. Vorrei proporre uno slogan per i governi di questo secolo. Dopo l’epoca infame della guerra permanente, costruire la politica della pace permanente.

Quarta questione: io sono stato molto orgoglioso quando l’Italia ha mandato le proprie truppe nel Libano come forza di interposizione di pace. Io sono favorevole a tutte le missioni che non violano l’articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana, che vieta il ricorso alla Guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Credo invece che sia molto importante moltiplicare l’iniziativa politica sapendo che il terrorismo, il fanatismo, il fondamentalismo si sconfiggono soprattutto se mettiamo in campo un esercito di costruttori di servizi sociali, di costruttori di modernità, di costruttori di benessere, di costruttori di libertà. L’Europa potrebbe dare un contributo peculiare alla lotta contro il fondamentalismo riaprendo il processo di allargamento dell’Unione europea e accogliendo a braccia aperte la Turchia e i balcani occidentali. Quello sarebbe un modo intelligente, politico e disarmato ma molto lungimirante per dare un colpo al fondamentalismo islamico. Ma per combattere il fondamentalismo islamico bisogna forse anche combattere il fondamentalismo occidentalista. Sono tanti i fondamentalismi che assediano il mondo di oggi».

A New York ha parlato pure dell’importanza di riscoprire e difendere la famiglia e i suoi valori. Come dovrebbe essere la famiglia ideale per affrontare il mondo di oggi? Ci parli della sua famiglia…

“Non esistono le famiglie ideali, esistono le famiglie reali, che a volte sono luoghi nevrotici, ricchi di solitudine e di violenza. Io ho avuto la fortuna di avere una famiglia reale che ha costruito l’educazione dei propri figli su due valori fondamentali: l’accoglienza degli altri, soprattutto degli altri più sfortunati, degli altri più diversi. E il senso del dovere, la vita come senso del dovere. Come partecipazione ad una impresa collettiva, la fuga dall’egoismo. Ho avuto questa grande fortuna di avere due genitori meravigliosi, e fortunamente quando penso alla parola patria, ho il ricordo di mio padre, ho il ricordo della sua educazione e per questo, modestamente, mi ritengo un buon patriota».

Stefano Vaccara

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