
di Gennaro Migliore
Una sentenza esemplare. Dopo nove anni e molteplici tentativi di impedire l’accertamento della verità, sul piano giudiziario si è scritta una sentenza che permette a tutti i protagonisti dell’epoca di rispecchiarsi in fatti e storie che corrispondono alla nostra memoria diretta e a quella collettiva. Nove anni sono tanti e, proprio per questo, molti reati sono finiti in prescrizione. Ma l’importanza della sentenza di ieri è data dal complesso delle condanne che, implacabilmente, ricostruiscono il contesto, la decisione, la catena di comando e i successivi atti di depistaggio che furono la cornice entro sui si iscrissero gli inauditi atti di violenza perpetrati alla Diaz.
Il reato contestato è, infatti, quello di “falso ideologico”. I tutori della legge, ai loro massimi livelli, che hanno costruito un castello di menzogne per giustificare la sospensione della democrazia e la furia repressiva che si scatenò in quei giorni. La sentenza, quando leggeremo le motivazioni, probabilmente farà luce su molti punti di questa azione congiunta e criminosa. Il pianto liberatorio di Mark Cowell, un mediattivista inglese ridotto in fin di vita dalle primissime cariche di quella notte cilena, portano a galla un cumulo di emozioni e di durezze che si erano cristallizzate nella nostra memoria. Conobbi Mark Cowell il 20 luglio, proprio al media center della Diaz.
Allora si faceva chiamare Sky e mi colpì per la passione con cui partecipava a quella narrazione collettiva di giorni già pieni di orrori. Nel pomeriggio del 21, poco dopo la conclusione della manifestazione di chiusura, anche quella selvaggiamente caricata, ci ritrovammo davanti alla Diaz, perché eravamo sconvolti e volevamo trovare le parole per raccontare ciò che fin lì era successo. Avevano ucciso Carlo, avevano caricato ragazzi inermi, volevano toglierci il diritto di ribellarci all’insopportabile governo oligarchico dei G8. Ci lasciammo con l’intenzione di ricostruire un racconto comune di quelle giornate.
Lui era lì in mezzo al vialetto che separava le due scuole, la Pertini, che ospitava centinaia di ragazzi italiani e stranieri, e la Diaz, dove c’era il media center. Poco dopo Mark si trovava lì, mentre le squadre di picchiatori in divisa entravano senza sforzo in quello che doveva essere il covo dei pericolosi black block. A lui sfondarono un polmone, a chi dormiva nella scuola ruppero le ossa in quella “macelleria messicana” che per primo denunciò Michelangelo Fournier, rompendo l’intollerabile omertà che fin lì era calata tra i responsabili diretti di quel massacro.
Oggi, i cento anni di condanne e gli altrettanti di interdizione dai pubblici uffici, sono un pezzo fondamentale di quella verità troppo a lungo negata. Perciò sono inaccettabili le dichiarazioni di chi, come il ministro Maroni, dice che “tutti resteranno ai loro posti”. Hanno fatto carriera gli autori materiali dei pestaggi. Oggi dirigono strutture dei servizi, importanti uffici antiterrorismo, questure, spesso sono stati lodati e apprezzati per le loro attività investigative. Ma è intollerabile che quei giorni, quelle menzogne, possano essere coperte dal governo e dagli apparati dello Stato. Nessuno può rimanere a dirigere strutture sensibili se abbia ricevuto condanne penali così alte e per di più in appello. In attesa dell’eventuale pronunciamento della Cassazione, devono immediatamente essere rimossi. La sentenza dice che fu una preordinata violenza contro cittadini inermi e che l’intera catena di comando operativa ne porta le responsabilità.
A questo punto però la verità va a maggior ragione ricercata con più forza. Se i più alti vertici della polizia concertarono quelle azioni criminose, è possibile che non vi fosse un ordine dato ancora più dall’alto? È possibile sapere chi, quando e perché ha deliberatamente deciso di reprimere con la violenza uno dei più importanti movimenti sociali degli ultimi cinquant’anni? Sono domande che richiedono una verità supplementare a quella, determinante, ottenuta per via giudiziaria. Richiedono una verità storica. Per questo, quando eravamo in Parlamento, chiedemmo una commissione d’inchiesta sui fatti di Genova, che fu bocciata con i voti della destra e dell’Idv. Per questo la chiediamo ancora. Per noi, quando il potere stravolge la democrazia e abusa della verità, è un potere pericoloso.
Oggi, proprio perché possiamo piangere per l’emozione di aver ottenuto un pezzo di quella verità, non chiediamo altro che sapere ancora.
Mercoledi 19 maggio
Un giudice c’è anche a Genova, non solo a Berlino!
RispondiEliminadi Giuliano Giuliani
Quando i giudici hanno terminato la lettura della sentenza d’appello per i fatti della Diaz il mio commento è stato: “Un giudice c’è anche a Genova, non solo a Berlino!”.
E’ stato infatti completo il ribaltamento rispetto alla sentenza di primo grado, che aveva assolto “perché il fatto non sussiste” tutti gli alti vertici della polizia. Quelli, per intenderci, presenti all’esterno della scuola dove si consumava la “macelleria messicana”, per ricordare l’espressione usata dal vice questore Michelangelo Fournier quando venne a testimoniare, anch’egli ritenuto fra i responsabili.
Quelli che filmati ormai famosi ritraggono mentre si palleggiano un sacchetto di plastica azzurro all’interno del quale ci sono le altrettanto famose bottiglie molotov, che vengono introdotte nella scuola per poter accusare i presenti di terrorismo (è sempre utile ricordare che, nell’ordinamento, la molotov è considerata arma da guerra e che il possesso attribuisce la gravissima accusa). Quelli che, nonostante i pesanti sospetti che emergevano dalla ricostruzione dei fatti e dalle udienza, sono stati collocati al vertice di tutti i fondamentali servizi che dovrebbero garantire la sicurezza del Paese e dei cittadini.
Certo, molte condanne non avranno effetti perché i reati sono prescritti: gli accorciamenti dei tempi non aiutano soltanto il principale beneficiario delle leggi ad personam. Ma il valore della sentenza sta proprio nelle condanne per reati gravi accertati e che soltanto una valutazione invereconda dei giudici di primo grado poteva sottovalutare o addirittura ignorare. Ora, per usare la litania di rito, occorre attendere la sentenza di terzo grado, necessaria anche perché diventi operativa una parte della sentenza d’appello: quella che prescrive l’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici degli imputati eccellenti. Capito? Vertici della polizia e dei servizi azzerati, un grave colpo anche per chi sta al di sopra di tutti, quel Gianni De Gennaro che, così si racconta, non sapeva, non commentava, non induceva a falsa testimonianza, insomma quasi ignorava che a Genova ci fosse un G8 con annesse manifestazioni no-global!
Un atto di coraggio, quello dei giudici della corte d’appello, di grande coraggio, così è stato detto. Ed è una considerazione sulla quale riflettere. Siamo davvero un Paese nel quale un atto di giustizia consapevole richiede, da parte di chi ha il dovere di compierlo, un grande coraggio? A questo siamo ridotti? A quando una autentica e diffusa rivolta morale per provare ad essere un Paese normale?
Dopo Bolzaneto, la Diaz. Due sentenze d’appello che ricostruiscono pezzi importanti di verità su Genova. L’appello per i 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio aveva incomprensibilmente aggravato le pene per nove persone (fino a quindici anni per danni alle cose!), quasi che fossero gli unici responsabili di tutto quello che era successo. Ma aveva ribadito che altri avevano reagito a cariche “violente, indiscriminate e ingiustificate” dei reparti dei carabinieri, peraltro mai chiamati a risponderne.
E l’omicidio di Carlo? Appunto, quello lo hanno fatto i carabinieri.
Giuliano Giuliani
Giovedi 20 maggio 2010