
Nel corso di una conferenza organizzata dalla Fondazione Corriere della Sera, tenutasi il 16 Dicembre ed avente per argomento la "ri-specializzazione delle imprese", si sono espresse valutazioni a dir poco sconcertanti.
Secondo Roberto Colaninno, ad esempio, in questo paese "siamo diventati troppo ricchi, e forse non abbiamo più voglia di lavorare, perché pensiamo più ai diritti che non ai doveri". Il "disinvestimento dal lavoro", fotografato dal Censis, può essere curato soltanto con più lavoro, secondo gli intervenuti. "Dobbiamo lavorare di più", ha aggiunto Colaninno. Ma un po’ tutti gli interventi hanno ribattuto quelli che sono ormai gli stanchi "riti verbali" di una classe imprenditoriale, quella italiana, che ha ampiamente dimostrato di non aver più una visione innovatrice e, quel che è peggio, di non aver più idee sul futuro di questo paese, sulle dinamiche che dovrebbero portarci fuori da questa tremenda recessione.
Chi, infatti, dovrebbe lavorare di più? Forse gli operai italiani che già lavorano più di chiunque altro?
Sì, perché è noto, o quantomeno dovrebbe esserlo, che le ore lavorate in un anno dal lavoratore italiano ammontano a 1773, quindi una cifra assolutamente alta, ben superiore a quella della media europea (un lavoratore tedesco lavora mediamente 1390 ore all'anno), e addirittura superiore a quella dei "celebrati" lavoratori statunitensi e giapponesi, che raggiungono rispettivamente le cifre di 1768 e di 1714 ore lavorate annualmente (fonte: "OCSE"- 2009).
O forse gli imprenditori, per acquisire competitività, pensano di ridurre ancora i già magrissimi salari?
Perché questa è la sconcertante realtà: a fronte di un numero di ore lavorate estremamente alto, l'Italia registra una media salariale che ci pone, con 30.794 dollari pro-capite, agli ultimi posti in Europa, seguiti solo dal Portogallo e da alcuni paesi dell'est.
Dove risiede allora il "male oscuro" di quest'Italia, della sua scarsa produttività e della sua ancor più scarsa capacità di penetrazione dei mercati?
Esso risiede, certo, nella cronica mancanza di infrastrutture; nella mancanza di investimenti diretti alla ricerca e all'innovazione; nel dis-investimento che questo governo ha operato nei confronti della scuola. Ma anche, e forse soprattutto, nell'incapacità della nostra classe imprenditoriale di confrontarsi con la sfide che la globalizzazione le ha posto di fronte.
Quello che sta emergendo è l'impossibilità di far fronte al mercato globale solo affidandosi alle nicchie del cosiddetto "made in Italy": non è vendendo qualche "Ferrari" o qualche abito griffato ai nuovi ricchi del mondo che possiamo sperare di rilanciare la nostra economia. Non è confidando ciecamente nelle virtù di una classe imprenditoriale, la nostra, allevata a "pane e aiuti di stato" che possiamo sperare di ridefinire una struttura manifatturiera che sappia portarci fuori dalle "secche" di una produzione irrimediabilmente gravata dall'incapacità di rinnovarsi.
Ciò che occorre è dotarsi di una politica industriale degna di questo nome; ciò che occorre è una progettualità che può venire solo dalla guida (se lungimirante, ovviamente) dell'istituzione statuale. Ciò che occorre è, soprattutto, rifuggire dall'applicazione dogmatica dell'ideologia mercatista, che da sempre predica l'esclusione dello stato dalle dinamiche che reggono il mercato.
"Riappropriarsi dello stato", delle funzioni che ingenuamente credevamo di poter delegare al mercato. Riappropriarsi del "bene pubblico", e fare in modo che il bene pubblico (tipicamente espresso nel "servizio") funzioni bene. Riappropriarsi, più in generale, della propria umanità, troppe volte dimenticata in favore di una "scienza", quella economica, che scienza non può essere considerata.
Perché è solo "umanizzando" il mercato che possiamo sperare di vederne quei limiti intrinseci che l'ideologia non ci permette di vedere; che possiamo sperare di renderci nel concreto consapevoli che il lavoratore italiano lavora più di chiunque altro, e che guadagna meno di chiunque altro!
Perché, in fondo a tutto questo discorso, c'è il nostro aver scambiato per scienza quella che è solo una ideologia: l'economia del "libero mercato". L'alternativa a questa consapevolezza sono i discorsi da bar di un Roberto Colaninno qualsiasi, un uomo che qualcuno un giorno definì "capitano coraggioso".
Mauro Rossi (portavoce Sinistra Ecologia e Libertà Altotevere umbro)
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